Una nuova religione: la patria
La “patria” del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sé l'individuo, e in nome di Dio gli inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica.
“Ragion di Stato” e “salute pubblica” erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo dritto della patria, superiore ad ogni dritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la “patria”, ed era non meno terribile.
La sua volontà e il suo interesse era “suprema lex”. Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo, e di fine a se stesso: era lo strumento della patria, o ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di un solo.
Patria era dove tutti concorrevano più o meno al governo, e se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò che si diceva “repubblica”. E si diceva “principato”, dove uno comandava e tutti ubbidivano.
Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella società, o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.
Queste idee sono enunciate dal Machiavelli, non come da lui trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse, e fortificate dalla coltura classica. Ci è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato.
La patria assorbisce anche la religione. Uno Stato non può vivere senza religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perché a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perché con i suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della religione.
Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non strumenti, ma ostacoli, gli spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù dei buoni principi; ma ci odori un po' di retorica, che spicca più in quel fondo nudo della sua prosa.